lunedì 27 giugno 2011

dossier: la religiosità di Gandhi

Quando i gesuiti erano ancora cattolici, pubblicavano studi come quello riportato qui sotto.
(testo ripreso dalla newsletter del Centro Studi Giuseppe Federici http://www.centrostudifederici.org )


LA RELIGIOSITA’ DI GANDHI, Civiltà Cattolica, Quaderno n. 1960, anno 1932, vol. I, pp. 335-350.
 
Gandhi e le Missioni.
Il 21 di marzo del 1931, il capo nazionalista fece ai giornali la seguente dichiarazione: «Se i missionari stranieri, nel prossimo regime dell'India indipendente, invece di restringersi alle sole opere caritatevoli e umanitarie, volessero continuare a fare, come fanno ora, del proselitismo per mezzo delle opere educative e sanitarie, io chiederei loro di ritirarsi. Tutte le religioni sono buone, e l'India non ha bisogno di convertirsi spiritualmente».
Alle critiche suscitate da queste dichiarazioni, tra i cattolici ed i protestanti, Gandhi volle spiegare le sue parole, ma le sue spiegazioni non cambiano la sostanza della sua prima dichiarazione (1).
Alla Conferenza della Tavola Rotonda a Londra, il Signor Pannir Selvam (cattolico), delegato dei cristiani, tentò di far ammettere da Gandhi un minimo delle rivendicazioni dei cattolici. Egli voleva specialmente fargli ammettere la legittimità delle conversioni; ma Gandhi non volle cedere. Intanto, in queste medesime rivendicazioni concordano tutte le minoranze che hanno ragione di temere l'onnipotenza della maggioranza Indù nel regime di indipendenza dall'Inghilterra. Così, i Musulmani, le Basse Caste, i Protestanti, gli Anglo indiani, gli Inglesi dell'India, si sono uniti formando un gruppo di 115 milioni di Indiani, i quali sostengono, come espressione dei loro desideri, rivendicazioni simili a quelle presentate dal Pannir a nome dei cattolici.
Allora Gandhi tentò di scindere il gruppo degli avversari, accettando le rivendicazioni dei musulmani, negando tutto ai cattolici. Questi non sono contrari alla indipendenza, ma, naturalmente, non possono vedersi negata la loro libertà e quindi la libertà di evangelizzazione dei missionari. Vi è un grosso equivoco nella religiosità di Gandhi, il quale (come rileva il poeta Tagore) da una parte proclama un universalismo (noi diciamo Indifferentismo) religioso, e dall'altra, politicamente, vuole dare l'ostracismo al Cristianesimo. I cattolici non si illudono, purtroppo, sulle vere intenzioni di Gandhi, il quale sembra voler barcamenarsi per non perdere le simpatie del maggior numero possibile di aderenti.
La presenza di Gandhi in Inghilterra ha dato luogo a varie parate. Ad Oxford, la grande aula dei massoni servì per i suoi ricevimenti. I Quaccheri gli dettero un solenne ricevimento. A Cantorbery, durante un «servizio religioso», fu riservato a Gandhi un seggio speciale nel tempio, con iscandalo di quel bravi anglicani che hanno ancora senso di dignità.
 
Cristianesimo induizzato.
Insomma, religiosamente, Gandhi appare come una sfinge a chi non conosce la mentalità induista, la quale è essenzialmente compenetrata di indifferentismo religioso.
L'induismo tende ad assorbire in sé tutte le religioni; da tutte, come direbbesi volgarmente, tira l'acqua al suo mulino. A primo aspetto sembra accogliere molto volentieri il Cristianesimo, ma subito lo induizza, variamente secondo le mire di ciascuno. Gandhi è interamente e perfettamente indù nell'assimilarsi alcuni elementi cristiani, trasformandoli nelle sue idee politico-religiose. Per esempio, nella sua ultima venuta in Europa gli fu chiesto da qualcuno: Gesù Cristo ha detto: io sono l'unica porta. Che ne pensate? E Gandhi rispose: «Ciò è perfettamente vero, se per Cristo intendete, come intendo io, l'incarnazione dell'amore di Dio nell'umanità, non però se intendete un uomo storico». E cioè nel senso delle incarnazioni (avatara) induiste. In simil guisa egli induizza tante altre dottrine del Cristianesimo. Per lui «amore di Dio» vuol dire lo stesso del suo Satyagraha.
Se Gandhi avesse avuto modo di conoscere e studiare seriamente il Cristianesimo genuino, e cioè il Cattolicismo, forse egli sarebbe potuto arrivare a vederne la verità storica ed assoluta, (come è accaduto ad alcune grandi menti tra gli Indiani, per esempio ad Upadhyaya, del quale diremo quanto prima ai nostri lettori), ma, disgraziatamente, egli non l'ha conosciuto e non lo conosce tuttora se non nelle varie sette protestanti, con una infarinatura superficiale ecclettica. Inoltre è infatuato dell'umanitarismo pseudocristiano del Tolstoi, che egli dichiara di seguire come uno dei tre uomini, i quali — egli dice— «si sono profondamente impressi nella mia vita e si sono conquistati il mio animo», e cioè «Raychandbhai, con la sua vita quotidiana a cui partecipavo, Tolstoi, con il suo libro Il regno di Dio è in voi, e Ruskin, con il suo Unto this last».
Allo stesso tempo egli lesse il Corano e altri libri riguardanti l'Islam ed anche libri di teosofia, dalla quale egli dice di aver avuto più alta l’idea dell'induismo, come dall'amicizia e comunicazione con Raychandbhai. Questi gli diceva: «io sono convinto che nessun'altra religione è così sottile e profonda come l'induismo, la sua conoscenza dell'anima o la sua carità». Quindi egli trova il Cristianesimo inferiore al Buddismo: «Guardate la pietà di Gautama! Essa non è limitata agli uomini, ma è estesa a tutti gli esseri viventi. Un simile amore per tutti indistintamente gli esseri viventi non si trova nella vita di Gesù».
E’ un sentimentalismo che fa andare in visibilio le menti superficiali; ma è in fondo un orgoglio nazionalista che impedisce la ricerca e la visione della verità. Ed è proprio la cultura europea che ha fatto conoscere l' induismo agli indiani, e la teosofia, segnatamente, quella che ha loro inoculato una orgogliosa quanto superficiale infatuazione della «sapienza indiana» e il conseguente orgoglio nazionalista.
Ecco un tratto caratteristico delle esperienze religiose di Gandhi, come egli le espose il 28 luglio 1925, in Calcutta ad una adunanza di missionari protestanti raccolti nella sede dell'Y. M. C. A. Pubblicò questa conferenza nel suo periodico nazionalista Young India, 6 agosto 1925.
Egli narra di essere andato nel 1901 a visitare uno dei «cristiani indiani più eminenti», Kali Charan Banerji, e di avergli fatto questo discorso: «Sono venuto da voi in adempimento di una sacra promessa, fatta ad alcuni miei carissimi amici cristiani, che io non avrei lasciato nulla di intentato per iscoprire e trovare la vera luce». Gli disse aver dato ai suoi amici l'assicurazione che «nessun vantaggio di questo mondo l'avrebbe potuto trattenere dall'accettare quella luce, tanto solo che l'avesse potuta vedere». Ma, purtroppo, dichiara Gandhi, neanche egli potè persuadermi e «questo fu l'ultimo deliberato tentativo per darmi conto del Cristianesimo come mi era esposto». E conclude: «Ora la mia disposizione è questa: benché io ammiri molto nel Cristianesimo, nondimeno non riesco a formare nel mio animo la persuasione del Cristianesimo ortodosso. Devo dirvi con tutta umiltà che l'induismo, come lo conosco, soddisfa interamente l'anima mia, riempie tutto il mio essere, ed io trovo nella Bhagavad Gita e nelle Upanishadi una consolazione che non riesco a sentire nemmeno nel Sermone del Monte. Non perché io non apprezzi l'ideale e gli insegnamenti di quel Sermone, ma perché, quando io mi sento nel dubbio e nella delusione e non vedo nessun raggio di luce all'orizzonte, io mi volgo alla Bhagavad Gita, e vi trovo un versetto che mi conforta, e subito comincio a sorridere in mezzo all'opprimente tristezza. La mia vita è stata piena di tragedie esteriori, e se esse non hanno lasciato nessun effetto visibile ed indelebile in me, lo devo agli insegnamenti della Bhagavad Gita».
Non può disconoscersi l'accento della sincerità in queste parole, ma si deve osservare che Gandhi non poteva pretendere di conoscere il Cristianesimo in una sola visita e conversazione, né poteva dispensarsi dallo studiarlo positivamente e seriamente nei libri e soprattutto di andare a consultare dei competenti quali sono i dotti missionari cattolici, che non mancano nell'India. Del resto, Kali Charan Banerji non poteva bene illuminarlo sul Cristianesimo, non avendone egli stesso le idee chiare ed esatte .
Infatti, Kali (zio di Bhawsani Charan Banerji Upadhyaya, di cui, come abbiamo fatto cenno, tratteremo) ragguardevole personaggio, professore al Law College di Calcutta, era stato educato nelle scuole protestanti, e si era formato un cristianesimo a modo suo, onde era insieme membro della setta induista Brahma-Samaj, miscuglio ecclettico di varie religioni (2), e nel 1870 si era perfino proposto di fondare una «Chiesa cristiana nazionale del Bengala» (3). Non era quindi l'uomo adatto ad istruire Gandhi sul Cristianesimo «ortodosso».
Vale la pena esporre il seguito del discorso di Gandhi, perché rappresenta al vivo la sua mentalità religiosa induista.
Continua dunque: «Mi volsi al Corano, tentai di capire il Giudaismo distinto dal Cristianesimo, studiai il Zoroastrismo, e venni alla conclusione che tutte le religioni sono buone, ma ciascuna di esse è naturalmente e necessariamente imperfetta, perché esse vengono interpretate con le nostre povere intelligenze, talora con i nostri poveri cuori, e spesso vengono male interpretate. In tutte le religioni trovai esservi varie e contraddittorie interpretazioni degli stessi testi. Allora dissi a me stesso: ciò non fa per me; se voglio la soddisfazione dell'anima mia, bisogna che io senta la mia via e che me ne stia silenzioso al cospetto di Dio e gli chieda di guidarmi». (Si noti la parola sentire invece di intendere ragionatamente: I must feel my way).
In fine egli conclude con una specie di ammonimento ai missionari, nel quale fa trasparire la sua avversione alla evangelizzazione cristiana: «Vi hanno degli intoccabili (paria), dei bramini e dei non bramini che sono l'incarnazione del sacrifizio, dell'umiltà e della religiosità. Vi assicuro che vi è nell'India molto di buono. Non vi lusingate dandovi a credere che la sola recitazione di un versetto di S. Giovanni possa fare un uomo cristiano. Se ho bene inteso la Bibbia, io conosco molti che non hanno udito il nome di Gesù Cristo, o che hanno rigettato l'interpretazione ufficiale del Cristianesimo, i quali Cristo, se tornasse a vivere ai nostri giorni, riconoscerebbe per suoi più che molti tra noi. Vi prego perciò di avvicinarvi ad essi con cuore largo e con umiltà. Io non trovo dalla parte vostra la recettività, l'umiltà e la volenterosità necessarie per comprendere intimamente il popolo indiano».
Se in queste parole e segnatamente nell'ultimo periodo, Gandhi volesse intendere, che i missionari debbano conoscere e comprendere la psicologia dell'indiano, la sua indole, i suoi costumi ed usanze nazionali, così da potervi adattare se stessi e il modo pratico dell'evangelizzazione, in una parola, nel senso in cui S. Paolo diceva: omnibus omnia factus sum ut omnes facerem salvos (I Cor. 9,22), egli avrebbe ragione. Del resto egli parlava a missionari protestanti, tra i quali non può darsi una retta comprensione dell'adattamento, tale che non pregiudichi la purità ed interezza della dottrina di Cristo, appunto perché ai dissidenti manca, insieme con la comprensione della purità ed interezza dottrinale, il retto e sicuro criterio che deve regolare i limiti dell'adattamento. I missionari cattolici posseggono l'una e l'altro, e sono notissimi gli adattamenti, sino agli estremi limiti compatibili con l'integrità della dottrina cristiana, dal P. De Nobili, nelle antiche missioni del Madurè, ai missionari moderni, i quali hanno la massima cura di evitare tutto quello che, senza essere essenziale alla fede, contraddica alle costumanze indiane.
Ma Gandhi non intende ciò: egli chiede ai missionari di induizzarsi; in sostanza di convertirsi all'induismo quale lo intendono Gandhi stesso e gli intellettuali dell'induismo e cioè ad un sincretismo tutto proprio della mentalità induista, che già descrivemmo negli articoli citati (4). L'induismo non ha fede determinata, né autorità dottrinale, perciò è amplissima la sua capacità sincretista e anzi quella a lui propria di assorbimento di tutte le altre religioni. Gandhi ne è un esempio vivente anche nella sua professione induista, che egli intende in un diluito senso cristiano interpretato secondo il razionalismo occidentale.
Ecco in fatti la sua professione di fede induista:
«lo mi professo un indù sanatani (ortodosso), perché:
1. Credo nei Veda, nelle Upanishad, nei Purana e in tutte quelle che vanno sotto il nome di Scritture indù, perciò nelle avatara (incarnazioni) e nella rinascita.
2. Credo nella Varnashrama dharma (casta) in senso strettamente Vedico, non nel senso crudo e popolare presente.
3. Credo nella protezione della vacca in un senso molto più largo di quello popolare.
4. Non rigetto il culto degli idoli.
Non credo nella esclusiva divinità dei Veda. Credo che la Bibbia, il Corano e lo Zend Avesta sono divinamente ispirati al pari dei Veda» (5).
Questa ultima professione d'indifferentismo religioso dà il senso dei quattro punti precedenti, conforme alla mentalità induista, che è una sorte di razionalismo intuizionista-sentimentale, donde è assente la logica. Ma, come esponemmo, la mentalità induista si accomoda tranquillamente alle contraddizioni, delle quali si rilevano molte in tutto il pensare e operare del Mahâtma.
 
Contraddizioni.
La più patente contraddizione è nell'affermare ugualmente ispirati libri, che si contraddicono gli uni gli altri.
Contraddizione è ammettere il principio della divisione di caste, varnashrama, e poi deplorare la «intoccabilità», cioè la condizione dei paria o senza-casta, che è logica conseguenza di quel principio. Altro è la tolleranza delle divisioni di caste, in quanto è un uso millenario radicato e difficile a svellere d'un tratto, praticata dai Missionari in attesa della graduale abolizione, e tutt'altro è ammetterne il principio che rende perpetue quelle divisioni.
Altra contraddizione è ammettere la «protezione della vacca» che è, come dice Gandhi «il fatto centrale dell'induismo» (veramente non è solo protezione, ma un vero culto divino quello professato dagli indù per la vacca) e non ammetterla anche per gli altri animali nocivi all'uomo e anzi per i viventi vegetali.
In fatti la ragione fondamentale di tale protezione è esposta da Gandhi nei seguenti termini, che dànno appunto luogo a quella contraddizione: «La protezione della vacca mi pare il più ammirabile fenomeno dell'evoluzione umana. Esso porta l'uomo al di là della sua specie. Per me, la vacca rappresenta tutto il mondo sub-umano; l'uomo deve vedere in essa la sua somiglianza con tutto quello che esiste».
Con siffatta argomentazione non sarebbe neanche lecito non soltanto di mangiare i vegetali, o di tagliare gli alberi per adoperarne il legno, ma neanche di tagliare le pietre. battere il ferro, ecc.
Se non che, per l'induista tutto è religione e tutto è Dio; panteismo e teopanismo, che include tutte le contraddizioni, onde la religione si riduce in ultima analisi al soggettivismo assoluto, dove ciascuno dice a se stesso «non vi è altro Dio fuori di me». Il che, logicamente, è ateismo; ma l'indù, refrattario alla logica, non lo vede.
Infatti, per Gandhi, la religione è «realizzare se stesso». Per conseguenza, il proprio cervello, per lui come per ogni induista sognatore, diventa la volontà di Dio e Dio stesso. Spesso Gandhi adopera le espressioni comuni all'uso cristiano sulla provvidenza divina, sulla sottomissione alla volontà di Dio, ecc., ma nel senso soggettivo anzidetto.
Soprattutto Gandhi dichiara e afferma continuamente che la sua religione è politica e la sua politica è religione, e poiché quae sunt eadem uni tertio sunt eadem inter se, la sua politica è identica al suo cervello, cioè al suo pieno, assoluto ed ostinato soggettivismo, che tutto ed ogni cosa assorbe e vuole assoggettare ed ordinare alle sue mire.
Quest'uomo che si dichiara «umile servitore dell'India e dell'umanità» e proclama il «sacrificarsi» fondamento ed anima della sua politica-religione, o religione-politica, che è lo stesso, non fa altro in realtà che asservire e sacrificare tutto e tutti alla sua politica, nella quale, del resto, anch'egli è servo del partito nazionalista. Ed ecco la dimostrazione di questa specie di tirannide soggettiva alla stregua dei fatti:
Al suo intento politico gli occorre avere ai suoi ordini tutta l'India, e cioè tutte le parti in cui è divisa e discorde quella vasta regione, che non può dirsi una nazione, ma un continente. Egli mira ad avere con sé i più numerosi e più potenti, e sono i musulmani; quindi si è sempre adoperato ad appoggiarli nelle loro rivendicazioni. Così fece nella questione del Califfato, perché, come riconosce lo stesso suo panegirista Romain Rolland (6), Gandhi vedeva nella questione musulmana lo strumento più proprio ad operare l'unità indiana. Quindi Gandhi trascina i musulmani ai suoi metodi di non cooperazione e disobbedienza civile, che naturalmente danno luogo a tumulti con morti e feriti. Di recente, per attirarli alle sue mire, come sopra rilevammo, Gandhi consente alle rivendicazioni dei musulmani, simili a quelle dei cristiani, ai quali egli le nega. Ma i musulmani rimangono restii, non fidandosi del Mahâtma, e non volendo danneggiati i loro interessi commerciali nel movimento di non cooperazione.
Altro elemento, che vuole aggiogare al suo intento politico, sono le donne, e perciò ne proclama la emancipazione e ne magnifica con alte lodi la costanza nel sacrificio. Lo stesso Gandhi espone nella autobiografia il suo ragionamento (in sostanza machiavellico): il modo più efficace di ottenere l'emancipazione della donna indiana è quello di dimostrare che essa è matura per le stesse opere di politica dell'uomo, e non vi è migliore occasione di mostrare tale maturità politica che quella di prendere parte al Satyagraha, alla non cooperazione e alla disobbedienza civile: servire cioè agli intenti politici di Gandhi. E le donne hanno bene appreso la lezione del Mahâtma, ed eccole lanciate in piena lotta politica nelle strade, ad impedire l'ingresso nei negozi di merci europee, a fare dimostrazioni ed a distribuire manifesti rivoluzionari.
I giornali del 7 gennaio hanno riferito le notizie sull'opera accanita delle donne nelle organizzazioni nazionaliste, specialmente nel distribuire manifesti e fogli di propaganda. Uno di questi fogli dice, fra l'altro: « Noi vogliamo il terrorismo in tutte le sue manifestazioni... Questo è il momento del sacrificio per i devoti della dea Kali, dea della distruzione. E ripetiamo ancora: combattete con le armi le associazioni europee; uccidete gli europei; evviva la rivoluzione; abbasso l'imperialismo; aiutate il partito con armi, esplosivi e danaro». Questi propositi di violenza sono contrari a quelli di Gandhi, ed è da supporre che i comunisti soffiano in questo fuoco; ma il fuoco è stato destato dalla «non cooperazione», la quale è stata indetta, proprio in nome della «non violenza».
Con simile tattica, adoperata per le donne, Gandhi ha tentato di guadagnarsi i paria, invitandoli ad unirsi al suo movimento di non-cooperazione, presentandolo ai loro occhi come un atto religioso di purificazione, che li eleverà, e quindi affretterà la loro emancipazione. E nondimeno, per non alienarsi gli animi degli uomini di casta, quest'uomo religioso-politico, nell'ultima conferenza della Tavola Rotonda, ha buttato a mare i paria, escludendoli da ogni parità di diritti civili nell'ordinamento dell'India indipendente. E così nega ad essi quello appunto per ottenere il quale vuole la loro cooperazione e il loro sacrificio. Se questo non è machiavellismo, che sarà mai?
La politica-religione del Mahâtma, come quella del «segretario fiorentino, sa applicare la massima che il fine giustifica i mezzi, e non ne fa mistero, come quando dichiara apertamente di voler partecipare alla guerra anglo-boera e di farsi attivo reclutatore di soldati per la grande guerra, non perché è persuaso della giustizia della causa degli inglesi, ma per cattivarsene il favore, pur contravvenendo ai suoi principi di «non violenza»; e anzi e tutt'insieme fa sapere che egli vuole esortare gli indiani ad arruolarsi, affinché imparino il maneggio e l'uso delle armi da usare poi naturalmente (Gandhi non lo dice, ma è facile supporre) per la conquista della indipendenza contro gli stessi inglesi di cui vuol cattivarsi la fiducia.
Se non che Gandhi ricorre ad una scappatoia, dichiarando che, nel caso ove non c'è altra scelta se non tra la viltà e la violenza, allora consiglierebbe la violenza. Ma, non essendo da lui ben definito il concetto di viltà, resta praticamente aperto l'adito all'uso della violenza, tutte le volte che convenga ai propri scopi. E insomma il soggettivismo che decide, quando non si riconosce una norma morale obiettiva. (…)

Esasperazione del Nazionalismo.
In una «intervista», mentre il Mahâtma si trovava a Roma nello scorso dicembre, interrogato da un giornalista indiano, Nripendro N. Mitter, Gandhi si lasciò sfuggire delle dichiarazioni minacciose; tra le altre: «Non vi è altra strada, fuori di questa: lottare fino all'ultimo per la libertà assoluta». E in fine «Tu sai molto bene e tutti sanno che io detesto e odio ogni violenza e più ancora il sangue, ma se Dio lo vuole, io non ho la possibilità di oppormi». Quanto alle relazioni tra indù e musulmani, Gandhi — dice il giornalista — «guardandomi con molta tristezza, mormora al mio orecchio: Dio sa quanto io ho fatto e sto ancora pensando di fare, con tutte le mie forze, per stabilire una comprensione fra indù e musulmani. Se, malgrado ogni sforzo, io non riuscirò nel mio intento, non vi sarà che una strada, e cioè che noi, entrambi fratelli, lottiamo uno contro l'altro, quali che siano le conseguenze che possano derivarne per il bene del paese. Se vi sarà una rivoluzione e correrà del sangue tra indù e musulmani, i migliori (the cream of the Nation) si affermeranno per formare una nuova India con una nuova generazione». (Dall'Azione Coloniale, riportato nell'Ordine di Como, 17 dic. 1931).
Sulle quali dichiarazioni è da osservare, che Gandhi non ha mai saputo o voluto precisare che cosa intende per «indipendenza dell'India». Nel congresso di Karachi fu rimproverato di ciò da uno dei congressisti: «In dodici mesi, Gandhi ha dato almeno cinque interpretazioni differenti dell'indipendenza». E inoltre, non si dimentichi, che Dio e la volontà di Dio si riducono al cervello di Gandhi. E il suo cervello non indietreggia innanzi alla possibilità di stragi e distruzioni. Giacché il programma di «non cooperazione» è di fatto distruzione, come confessa Gandhi stesso: «Oggi tutta la Nazione indiana è chiamata ad un lavoro distruttivo: il boicottaggio». E l'ha ampiamente dichiarato nella stessa «intervista», dove espone molto in particolare questo suo programma, compendiato a principio nella formula «nessuna violenza, ma resistenza passiva totalitaria» (7). La quale formula è contraddittoria, giacché la così detta «resistenza passiva», si noti bene, «totalitaria» è pretta violenza ed arma micidiale a due tagli, uno dei quali colpisce bensì l'impero britannico, ma l'altro anche il popolo indiano.
È un nazionalismo esasperato e disperato. Il panegirista di Gandhi, Romain Rolland, lo chiama «trionfo del nazionalismo più stretto», indicato dal Mahâtma nella parola di senso esclusivo Swadeshi, che vuol dire autoctono, cioè tutto quello che è prodotto dal suolo e dal lavoro in patria, con esclusione di tutto ciò che è straniero, secondo il programma: «Restare a casa propria, chiudere tutte le porte. Non cambiare nulla. Conservare tutto. Non vender nulla e non comprare nulla fuori. Purificarsi». Il discepolo di Gandhi D. B. Kalelkar nel suo libro Il Vangelo dello Swadeshi, approvato dal maestro, dice: «Dio si incarna di tempo in tempo per la redenzione del mondo talora sotto forma di un principio astratto o di una grande idea che penetra il mondo; la nuova incarnazione (avatara) è il vangelo dello Swadeshi». In queste parole è ancora una prova dell'identità della religione con la politica secondo la mentalità induista, per la quale tutto è Dio e religione, e Dio e religione sono il proprio soggettivismo. L'indù è incapace di distinguere Dio dalle cose (come di concepire la creazione dal nulla: per lui tutto è emanazione di Dio e lo stesso Dio che si fa tutte le cose) e pertanto incapace di intendere la distinzione proclamata da Gesù Cristo: date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio.
Gandhi tenta di spiegare: «lo Swadeshi, non cooperazione, non è diretta contro l'occidente, ma contro la civiltà materiale e contro lo sfruttamento dei deboli, che ne consegue». E nella citata intervista del Giornale d'Italia: «Siamo contro la civiltà meccanica. La macchina fa più schiavo l'uomo, invece di liberarlo. Io predico il ritorno al lavoro manuale» ecc. Vi ha del vero, in queste, come in tante espressioni del Mahâtma, le quali dànno l'illusione di una altezza e purità morale, ma vi ha pure il sofisma post hoc, ergo propter hoc. Anche il fuso, I'arcolaio il telaio a mano e l'ago stesso sono macchine, per quanto semplici, ma restano sempre macchine; non esse, ma l'animo che le adopera è responsabile dei buoni o cattivi effetti: la cupidigia sfrenata, negatrice della legge morale e di Dio distinto dal mondo sul quale si fonda la legge morale, è quella che rende schiavo l'uomo.
Dio ha fatto l'uomo essenzialmente socievole e perciò è legge divina naturale che gli uomini si intendano e aiutino gli uni gli altri, non solo individualmente, ma anche collettivamente, e cioè che una nazione aiuti l'altra, i popoli si accordino insieme per scambiarsi i prodotti e darsi a vicenda quello che manca all'uno e abbonda all'altro. Le macchine, tendendo a diminuire il tempo del lavoro manuale e ad aumentare per conseguenza il tempo per il lavoro intellettuale e spirituale, dovrebbero favorire il progresso, non solo nel benessere fisico e materiale, ma anche nella cultura e nella civiltà spirituale, progresso che avvicinerebbe in certo qual modo le condizioni del genere umano a quelle del primo uomo nel paradiso terrestre, dove egli doveva bensì lavorare, ma senza fatica. Tutto ciò è magnifico ed è vero, in teoria, e serve a dimostrare che non è la macchina, per sé, quella che rende l'uomo schiavo. Ma, purtroppo, non accade così, perché, a causa del peccato originale, le passioni disordinate turbano l'ordine e trascinano gli individui, e per colpa degli individui le nazioni, alla cupidigia di volere tutto per sé il vantaggio, non riflettendo, che, anche nell'ordine temporale, la prosperità altrui, con la sua conseguente capacità di acquisto, ridonda in vantaggio proprio. Ad attuare siffatto accordo e aiuto vicendevole mira la Società delle Nazioni, la cui opera è almeno un tentativo iniziale, che potrebbe avere più sicuro svolgimento, se ivi si volesse riconoscere un'autorità morale sopranazionale promulgatrice e interprete delle norme della giustizia sociale e della carità, che devono regolare le nazioni non meno degli individui. Questa autorità non può essere altra che il Sommo Pontefice, stabilito da Cristo appunto per la custodia della legge morale. Ed anche in questa felicissima ipotesi, che riuscirebbe a rimuovere tanti conflitti e ingiustizie, si deve sempre tener conto della limitatezza umana, la quale deve spesso contentarsi del minor male e considerare che le condizioni migliori, in astratto e in teoria, volendosi attuare nella pratica senza la necessaria preparazione e maturità, riescono a peggiori mali. Il buon senso suole dire: il meglio e nemico del bene.
In fatti, oltre che alla cupidigia, deve attribuirsi appunto alla limitatezza umana lo squilibrio prodotto dalla moltiplicazione delle macchine; perché con il vertiginoso svolgimento della nuova tecnica non è andata di pari presso l'evoluzione politica e sociale. Natura non facit saltus nello svolgimento morale come nel fisico.
Iustitia elevat gentem: miseros autem facit populos peccatum (Prov. 14,34) dice lo Spirito Santo. Ora, la giustizia non è quella che si figura ogni rivoluzionario ed ogni demagogo, secondo il suo cervello, ma quello che è conforme alla legge eterna obiettiva, cioè alla legge morale, della quale non è possibile avere in questa terra una interpretazione sicura senza errori ed autorevole per tutti, se non da colui che Gesù Cristo costituì Pastore universale. E nell'applicazione pratica deve sempre tenersi conto della limitatezza umana.
 
La vera umiltà e carità.
Alla luce di queste considerazioni, e cioè della rivelazione cristiana, tenendo conto delle condizioni psicologiche dell'anima indiana in generale e della mentalità induista in particolare, si può ritenere che il Mahâtma è in buona fede nelle sue aspirazioni e mire generali verso un ideale di giustizia per il popolo indiano. Questo ideale è effetto del lume della ragione e dei dettami di giustizia scolpiti da D o nel cuore dell'uomo. In questo senso è sincero Gandhi, quando si professa un «cercatore della verità»[8]. Ma la ragione umana è purtroppo manchevole, senza la guida della Rivelazione cristiana: di qui i molti errori e contraddizioni del Mahâtma.
Quanto al modo di cercare la verità e attuare in particolare l'ideale di giustizia, egli adopera il metodo induista, più che di sincretismo, di assorbimento personale e soggettivo, nel quale l'Ahimsa, o non violenza giainista, e gli elementi cristiani del Sermone del Monte diventano il Satyagraha, ch'è un miscuglio di mitezza verbale con la violenza reale. La quale violenza reale è manifesta di fatto nell'attuazione demagogica. Il Satyagraha è solo nominalmente forza dell'anima o della verità, realmente è demagogismo. Per vederlo basta fare la comparazione tra il Satyagraha e la forza della verità del Sermone del Monte e della fratellanza cristiana promulgata da Cristo. Questa, dall'interno mutando gli animi, riesce ad abolire la schiavitù senza rivoluzioni né disordini; invece il Satyagraha, organizzato in boicottaggio, disobbedienza civile, ed altri siffatti mezzi propri del demagogismo, porta al disordine ed alla distruzione.
Pertanto Gandhi è realmente e principalmente un demagogo, ma demagogo more indico, tipo induista, cioè tipo santone e fachiro religioso[9]. Il suo ascetismo non ha niente di comune con l'ascetismo cristiano; è troppo calcolato ed esteriore; è bene spesso una parata diretta a fare impressione sulle masse.
Perciò la sua buona fede, nel campo ideale e generico, vien meno a mano a mano che egli scende nel terreno della pratica, poiché, quanto alla verità religiosa egli non ha adoperato né vuole adoperare i veri mezzi per ritrovarla, e quanto alla sua condotta politica, non appare conforme alla prudenza il non voler tenere conto delle condizioni di fatto e del parere di altri suoi connazionali più avvisati, come Tagore. L'una cosa e l'altra non è possibile senza vera umiltà, che non è quella delle espressioni così frequenti di modestia nelle labbra del Mahâtma...
L'umiltà è virtù essenzialmente cristiana, cioè soprannaturale, quindi in intima connessione con le virtù teologali o divine, specialmente con la carità, che è amore di Dio. Gandhi ignora l'amore di Dio, nel quale soltanto è la perfezione. Quella del Mahâtma e una perfezione formalista e calcolata, alla maniera della mentalità indù. Sotto le espressioni più umili e modeste, si cela, sia pure inconsapevolmente, l'orgoglio più sottile, come sotto le espressioni più riboccanti di umanitarismo e di sacrificio per il bene altrui, si nasconde il più insidioso egoismo intellettuale. Senza la carità che mira a Dio, non si può dare vero ed effettivo amore del prossimo.
Con ciò noi non vogliamo dire che nel Mahâtma tutto sia superbia ed egoismo; diciamo anzi: vi e del vero e del buono, effetto del lume della ragione e riflesso del Cristianesimo, ma vi è molto di erroneo, e perciò grave di cattive conseguenze. Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu. Basta un solo errore, per condurre a gravi mali.
Da ciò si comprende quanto sia superficiale, anzi stolta, ogni comparazione che si voglia fare di Gandhi con i nostri Santi, tutti luce purissima di umiltà e di carità e perciò di opere meravigliose ed efficaci per il bene dell'umanità (S. Francesco, S. Vincenzo dei Paoli, S. Francesco Saverio, i Beati Cottolengo e Don Bosco, ecc.). Peggio ancora, è sacrilega profanazione il solo raffronto con Gesù Cristo Signor Nostro.
Sarebbe invece molto opportuno un raffronto col grande campione cattolico dell'indipendenza irlandese, Daniele O’ Connel; dove apparirebbe molto chiaro la inferiorità di Gandhi. L'Irlanda era religiosamente ed economicamente oppressa dall'Inghilterra di gran lunga assai più di quello che Gandhi pensa dell'India; l'O’ Connell, con spirito cristiano e secondo le norme della morale cattolica, si adoperò per l'emancipazione della sua patria e la ottenne in parte, sempre per via legale e assolutamente pacifica, quale non è quella del Mahâtma.
E’ perciò superficiale, per lo meno, l'infatuazione umanitaria di Romain Rolland, nel suo panegirico di Gandhi. Dopo averlo tante volte comparato con Cristo e proclamato «Messia» lanciando uno sciocco insulto alla Chiesa, la quale, secondo lui «dà consigli inefficaci, virtuosi e dosati, prudentemente guardinghi per non metterla in urto con i potenti; nel resto dà consigli, ma non dà punto l'esempio», conclude: «La nostra lotta — dichiara Gandhi — ha per fine l'amicizia col mondo intero... La non-violenza è venuta tra gli uomini, e vi resterà. Essa è l'Annunciatrice della pace del mondo».
Fallaci illusioni del povero intendimento umano! Non vi può essere pace nel mondo fuori di quella annunziata da Cristo, alla quale è contrario direttamente ogni nazionalismo esagerato, la grande eresia moderna, importata dall'Europa nell'India, dove ha travolto l'anima, per altro nobile, di Gandhi, come travolse un'altra grande anima, intellettualmente e religiosamente più alta di Gandhi, Upadhyaya Brahmabhandav, di cui tratteremo altra volta.
 
Note
(1) Il sig. Giuseppe George, uno dei più illustri avvocati di Madras, stato un tempo redattore dell'organo di Gandhi Young India, convertitosi di recente dallo scisma giacobita al cattolicismo, commenta le dichiarazioni del suo antico capo in questi termini: «L'evangelizzazione è un dovere imposto da Dio stesso alla Chiesa, e su ciò non può cadere dubbio. Ora, con o senza Gandhi, con o senza Swaraj, la Chiesa non cesserà di adempire a questo dovere. Se potrà farlo senza persecuzione e senza violazione della legge, tanto meglio. Ma, se per gli adorabili e inscrutabili disegni di Dio, dovesse adempirlo sotto la persecuzione e col martirio, neanche ciò sarebbe un male». (Revue d'Histoire des Missions, Déc. 1931, pag. 595).
(2) Civ. Catt. 1930, v. III, p. I41-142.
(3) Cfr. l'opera del luterano JULIUS RICHTER, Indische Missions geschichte, 2a ed. Gütersloh, 1924, pag. 518 eA. VAETH S. I. In Kampfe mit der Zauberwelt des Hinduismus, Berlin - Bonn, 1928, pag. 71.
(4) Rinascenza dell'lnduismo, in Civ. Catt., 1930, III, p. 213.
(5) Young India, 6 ottobre 1921.
(6) ROMAIN ROLLAND, Mahâtma Gandhi, Parigi 1924.
(7) Il Giornale d 'ltalia. Roma. 15 dic. 1931.
(8) Nella prefazione all'Autobiografia di Gandhi tradotta in italiano, Giovanni Gentile, anch'egli, tira l'acqua del Mahâtma al suo mulino dell'idealismo attuale: «La verità per Gandhi non è quella che si possiede, ma quella che si cerca: non quella che si conosce, ma quella che si deve conoscere: non la conoscenza della realtà, ma la realtà stessa, alla quale la conoscenza deve appoggiarsi, se non vuol cadere nel vuoto».
(9) Gandhi stesso ha detto: «Ho incontrato molti uomini religiosi, i quali sono dei politici ammantati di religione; io però, che porto la veste di un politico, sono nel cuore un uomo religioso» M. Gandhi, an essay in appreciation by R. M. GRAY and MANILAL C. PAREEH. London , «Student christian movement», 1925, p. 99.

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